"... E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna..."


C'è un equivoco che, praticamente, dagli ultramontanisti in poi, ha sempre accompagnato il cristianesimo: esaltare la croce o esaltarne il dolore?
A tutt'oggi pensiamo che offrire la nostra sciatica e la nostra cervicale a Cristo, significhi alleviare le nostre pene in purgatorio. Come se Dio traesse un vantaggio dai nostri dolori.
Ammetto che possa essere consolante rimettere a Cristo e, in lui, al Padre, tutta la nostra vita, ma non certo perché il dolore sazi la vendetta di Dio.
Esaltare la Croce (e, dunque, non il suo dolore) significa entrare nella comprensione profonda che la croce misura l'amore di Dio per l'uomo e non la gravità del nostro peccato!
E' parziale e fuorviante dire che "Cristo è morto per i nostri peccati". Il Credo ci ricorda che "per noi e per la nostra salvezza è sceso dal cielo". Il suo movimento è, quindi, verso la pienezza (salus-> sanità ->"sanezza" -> interezza) e non, banalmente, a riparo del torto commesso. L'incarnazione è molto di più che l'evento della croce e mira a molto più che alla riparazione del peccato.
Nella festa di oggi esalteremo la croce come misura dell'amore di Dio. E se qualcuno pensa, ancora oggi, di mettere nella testa dei bambini in catechesi che il loro peccato abbia contribuito a crocifiggere Cristo sappia che non sta rendendo un servizio alla Tradizione Cristiana (e al buonsenso!).